Leggendo i suoi romanzi, in particolare Meraviglia, è iniziata la mia riflessione sull’essere insegnante e sulle mie responsabilità nel valutare e giudicare gli alunni. Le avventure di Lorenzo, nato e cresciuto tra le Dolomiti, immerso nella natura e costretto per esigenze di lavoro dei genitori a trasferirsi in città, dove si sente fuori posto, non compreso da genitori e insegnanti, hanno portato a chiedermi quanto noi insegnanti conosciamo realmente i nostri alunni e quanto facciamo per comprenderli e valorizzare le loro qualità.
Ospitare in questa mia stanza, nata proprio come conseguenza di queste riflessioni, lo scrittore Francesco Vidotto è per me un grande onore e privilegio. Naturalmente l’ho invitato per parlare di educazione e sistema scolastico, per poter riflettere attraverso le sue risposte, ancora una volta, sul ruolo educativo di questo ambiente e soprattutto per capire come realmente valorizzare i talenti di ognuno in un clima di benessere.
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Qual è stato il tuo percorso scolastico?
Le scuole elementari le ho portate a termine con ottimi risultati, le scuole medie con fatica, il liceo scientifico in 7 anni (iamè, ho ripetuto la prima e la quint, dopo l’esame di maturità; sono sempre stato rimandato a settembre). Dopo il liceo mi sono iscritto all’Università dove ho conseguito la laurea in Economia e Commercio in 4 anni presso la Cà Foscari di Venezia.
Dopo gli studi ho lavorato sei anni per una società di revisione di bilancio multinazionale occupandomi di materia finanziaria. Per i successivi otto anni sono stato responsabile dei tre stabilimenti più importanti d’Italia nel settore dell’imballaggio. Contestualmente ho scritto 12 romanzi di cui 7 pubblicati: 2 con Carabba, 3 con Minerva edizioni e 2 con Mondadori. Ho partecipato a 5 premi letterari e su 5 ne ho vinti 5. Mi sento di dire che la scuola, nel mio caso specifico non è servita a nulla, anzi. Se qualcosa ha fatto è stato ferirmi, umiliarmi, mettermi all’angolo. Per grazia di Dio possiedo una tenacia che non saprei dire e questa è stata la mia benedizione ma se non fosse stato così, la scuola mi avrebbe annientato.
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Quale il tuo vissuto in termini di emozioni ed esperienze?
Le esperienze umane negli anni di scuola sono state profonde, complesse e ricche. Ho vissuto storie d’amore senza eguali, storie di litigi familiari feroci, dovuti ai miei fallimenti negli studi, storie d’amicizie forti come il ferro che sono state la seconda possibilità di famiglia che mi ha donato la vita, storie di profondo dolore per amici che si sono uccisi, storie di emarginazione che gli insegnati sempre mi facevano vivere. Da questa marmellata d’anima è nata impetuosa l’urgenza di sopravvivere scrivendo storie.
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Quanto la scuola ha influito sulla tua preparazione professionale?
Non è servita a nulla.
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Quali sono stati i punti di forza e i punti di debolezza della “tua scuola”?
L’unico punto di forza che posso attribuire alla scuola è quello di avermi iniettato in vena una voglia di riscatto che è stata poi motore di tutta quanto la mia esistenza.
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La scuola di oggi su cosa deve puntare per formare persone consapevoli, libere, creative?
Sull’amore. Gli insegnati, a parer mio, dovrebbero amare gli allievi al pari dei propri figli. Insegnare è una missione, non un mestiere. Solo così possono riuscire a scovarne i talenti, a perdonarne l’arroganza, a volere il loro bene futuro. Gli insegnati che sono incapaci d’amare i propri alunni cambino mestiere. Non inquinino la vita altrui con la propria mediocrità.
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Ha ancora senso pensare a una scuola che formi al lavoro?
Dovrebbe avere senso eccome. La scuola dovrebbe preparare alla vita e quindi ad un mestiere.Dovrebbe insegnare il metodo, la tecnica, la teoria ma prima di tutto l’etica: il valore delle idee, della libertà, della cultura, della patria. La fiducia nei progetti nuovi. Dovrebbe insegnare a non avere paura, ad amare le fragilità. Nella realtà siamo distanti purtroppo.
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La stima in se stessi, la conoscenza di sé, si può costruire anche sui banchi di scuola?
Se sei fortunato e nel cuore arde l’amor proprio, sì. Nella vita paga molto di più la tenacia del talento ma non tutti la possiedono. Se sei fortunato dunque trovi in te la forza di farcela, in caso contrario vieni lasciato andare. Almeno questo è stato il mio caso.
La scuola dovrebbe aiutare a costruire una profonda e radicata fiducia in sé stessi ma invece molto spesso, la distrugge. A forza di prendere “3” un ragazzo si convince di valere “3” e quando parti scoraggiato, nove su dieci fallisci. Rischi di vivere una vita da “3” e invece sei eccellente solamente che nessuno si è preso la briga di fartelo scoprire.
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In uno dei tuoi romanzi, Meraviglia, attraverso il vissuto di Lorenzo parli di scuola, ma soprattutto di insegnanti: ci sono insegnanti che hanno lasciato in te un ricordo, sia esso positivo o negativo?
Purtroppo ho solamente ricordi pessimi dei miei insegnati. Addirittura la professoressa di italiano che andai a trovare molti anni dopo la maturità, che già avevo pubblicato molti libri, è stata pessima. Moriva di invidia perché lei, che mi dava quattro, avrebbe voluto essere scrittrice ma nessuno se l’era filata e allora non aveva trovato di meglio da fare che insegnare a scrivere agli altri. Ed io, l’ultimo tra gli ultimi, ero addirittura in libreria.
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Quali caratteristiche dovrebbe avere “un buon insegnante” e quali errori non dovrebbe mai commettere?
Credo dovrebbe essere mosso dalla voglia di educare nel senso nobile del termine che tradotto letteralmente dal latino significa: “tirare fuori”. Mai “inculcare”. E “tirare fuori” vuol dire mettere i ragazzi nella condizione di capire quale sia la propria inclinazione naturale.
E’ una testimonianza interessante ma penso che negli ultimi anni la scuola sia molto cambiata e, specialmente fino alla scuola media, si cerca di mettere al centro sempre l’alunno e la sua individualità. Ovviamente molto dipende dagli insegnanti e dalla loro umanità.
La scuola però non deve nemmeno abdicare alla sua funzione educativa. Non si possono lasciar corerre comportamente negativi, come mi è capitato talvolta di vedere in alcune realtà troppo innovative.
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Cara AnnaMaria,
penso che la scuola sia cambiata, certamente, ma che il bambino non sia ancora al centro. Già il fatto di avere classi numerose e lavorare con la cattedra di fronte agli alunni non permettendo loro di muoversi, fa si che le individualità non vengano rispettate e che gli alunni siano visti solo come recipienti da riempire. Educare, nel senso più stretto della parola, non può essere realizzato in queste condizioni. I cambiamenti devono essere più profondi.
Bisogna anche capire profondamente che dare spazio al bambino non significa lasciarlo libero di fare quello che vuole.
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