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Fine anno scolastico 2019, le considerazioni di un’insegnante in crisi d’identità

Anche quest’anno scolastico sta volgendo al termine portando con se le considerazioni d’obbligo che si fanno a ogni chiusura di percorso. Solitamente si arriva a maggio tutti esauriti e con tutti intendo proprio tutti: genitori, alunni e insegnanti. Ci si trascina in extremis, sul baratro dell’esaurimento, complici anche le prime giornate di caldo primaverile, tant’è che la scuola finirebbe a metà giugno, ma in realtà finisce molto prima.

La prima coniderazione: il riposo è necessario

Una prima considerazione è proprio questa: ma se la scuola termina a metà giugno perché già a fine maggio si chiudono programmi e spiegazioni o meglio, se fatte ugualmente dagli insegnanti queste si disperdono ai quattro venti senza nessuna possibilità di ricevere attenzione? Perché dobbiamo arrivare esausti, stile maratona, al traguardo e non possiamo permetterci più pause durante l’anno, fisiologiche e riparatrici, che ci permettano di svolgere realmente i fatidici x numero di giorni di scuola obbligatori?

Riposarsi è forse un reato? O un sintomo di nulla facenza? Non è forse fisiologico per tutti, in particolare modo per i bambini che sono soggetti in crescita? Probabilmente una diversa organizzazione oraria e temporale dell’orario scolastico verrebbe incontro alle esigenze di tutti: famiglie, studenti e insegnanti. Le vacanze estive sarebbero più corte, con minor dispersione degli insegnamenti e maggior possibilità di tempo dedicato realmente al riposo, fisiologico per assimilare e far propri i contenuti appresi.

La seconda considerazione: la noia serve per creare e far proprio

Un’altra considerazione, legata strettamente alla prima, la faccio mia dopo la partecipazione al Convegno Nazionale Montessori di Udine di fine maggio 2019. L’intervento del professore Francesco Caggio si chiude con una frase che ancora mi risuona nella testa “…DATE TEMPO AI BAMBINI!” questo mondo iperveloce, dove fermarsi è reato, ha dimenticato che esistono diverse percezioni del tempo, diverse necessità che se non rispettate portano a deviare il percorso, generando malattie più o meno gravi, di corpo e psiche. Tutti ce ne siamo dimenticati nella frenesia che oramai ci travolge, tranne poi meravigliarsi di fronte alle sempre più crescenti notizie di disagio.

Ma cosa significa dare tempo ai bambini? In parte significa, finalmente, attuare quell’idea di didattica personalizzata tanto declamata e sostenuta, anche dalle indicazioni ministeriali, ma sostanzialmente impossibile da realizzare. Dare tempo ai bambini significare prendersi anche il tempo per il riposo, quando esso è necessario, senza avere paura di non rispettare i fantomatici programmi, che anche se non dovrebbero esistere più, sono sempre lo spauracchio di insegnanti e genitori. Sì perché i programmi non esisteranno più, ma guai a non aver trattato una quantità sbalorditiva di conoscenze e concetti, che quasi sembra che i nostri ragazzi si perdano qualcosa di vitale, che precluderà loro opportunità. Ma quanto di tutto ciò che facciamo a scuola viene trattenuto nella mete del bambino?

Dare tempo ai bambini significare fare meno e meglio e lasciare il tempo perché questo “meno e meglio” venga consolidato, fatto proprio. Va da se che la terza considerazione di fine anno scolastico sarà che d’ora innanzi il mio mantra sarà Lessi is more! Mettendo da parte l’ansia di controllo e il sentimento di horror vacui, che mai come ora ci contraddistingue, e tornando a rendere vivo quel piacere dell’ozio come indispensabile momento vuoto di riflessione da cui nascono pensieri ed idee.

L’ultima considerazione: un ambiente giudicante genera giudizi

L’ultima riflessione nasce da un percorso personale e formativo e ha a che fare con la tanto attesa pagella di fine anno. Come possiamo pensare di rendere la scuola un posto migliore, stimolante e generatore di benessere per chi la fruisce (compresi bambini e adulti) se ne facciamo esclusivamente un luogo di giudizio? A noi insegnanti viene chiesto molto di più che usare la penna rossa per sottolineare gli errori e le mancanze. A noi insegnanti viene chiesto di valorizzare i talenti e le predisposizioni. Un lavoro, per altro, ben più complesso che implica un’attenta osservazione del prossimo e, soprattutto, un decentrare l’attenzione da noi, falsi detentori del sapere, al soggetto che ci sta di fronte.

 

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